Parlare di sapienza significa parlare di un profondo sapere, che si manifesta con il possesso di grande conoscenza e dottrina. Il vocabolario Treccani ci offre un altro spunto di riflessione, asserendo che essa è una dote oltre che intellettuale anche spirituale e morale, intesa come saggezza unita a un oculato discernimento nel giudicare e nell’operare sia sul piano etico sia sul piano della vita pratica.

Dal punto di vista religioso, la sapienza è uno dei 7 doni dello Spirito Santo nonché uno degli attributi di Dio, descritto sia nel Libro dei Proverbi, il quale ci tramanda che: “Il Signore mi ha creata all’inizio della sua attività prima di ogni sua opera”, sia nell’omonimo Libro veterotestamentario.  

In questo volume, infatti, l’Autore si rivolge ai suoi corregionali ebrei di lingua greca per convincerli della superiorità della sapienza ebraica, ispirata da Dio e concretamente espressa nella legge che governa il popolo eletto, sulla filosofia e sulla vita pagana.

Quindi, da un primo riscontro, possiamo asserire che la Sapienza è un qualcosa che è superiore alla saggezza. Dal punto di vista filosofico, nel pensiero presocratico e in Platone il termine Sapienza è impiegato per indicare l’insieme di abilità tecnica, conoscenza razionale ed equilibrata prudenza nel distinguere bene e male, lecito e illecito, utile e dannoso. In quest’ultima accezione esso è utilizzato come equivalente di phronesis, «saggezza» che, espressione anch’essa di perfezione spirituale, riguarda più specificamente il comportamento pratico e l’agire morale.

Tuttavia, colui che per primo tracciò una separazione tra la Sapienza e la saggezza fu Aristotele, dal quale apprendiamo che al di sopra delle virtù etiche ci sono quelle virtù che interessano la parte più elevata dell’anima, quella razionale, dette virtù dianoetiche, cioè le virtù della ragione.

Più segnatamente, Aristotele suddivise in due parti l’anima razionale, la prima che conosce le cose contingenti e variabili la seconda che conosce le cose necessarie e immutabili, corrispondenti alla ragion pratica e alla ragion teoretica a cui sono legate le rispettive virtù. La virtù legata alla ragion pratica è la saggezza (phrόnesis) mentre quella connessa con la ragion teoretica è la sapienza (sophia).

Quest’ultima, a differenza della prima – che consiste nel saper dirigere correttamente la vita dell’uomo, cioè nel saper deliberare intorno a ciò che è il bene o il male per l’uomo – è costituita sia dal coglimento intuitivo dei principi tramite l’intelletto sia della conoscenza discorsiva delle conseguenze che derivano da quei principi.

La sapienza è una virtù più alta della saggezza perché, mentre la saggezza riguarda l’uomo, quindi quanto c’è di mutabile in esso, la sapienza riguarda ciò che è al di sopra dell’uomo, pertanto la sapienza è l’insieme della scienza e dell’intelletto delle cose più eccelse della natura. In tale contesto, il primo filosofo che, secondo la tradizione tramandataci da Platone e Xenofonte, fu appellato dall’oracolo di Delfi “il più sapiente tra gli uomini”, fu Socrate, anche se egli stesso continuava a ripetere che “sapeva di non sapere”. 

Al momento gli sembrò molto strano; poi verificato, attraverso il dialogo, quanto poco sapevano coloro che ostentavano i più diversi saperi, si accorse che lui, rispetto a quelli, almeno sapeva di non sapere. In sintesi, l’oracolo delfico aveva premiato l’ammissione di “sapere di non sapere”.  Ma il sapere di Socrate era legato al “saper ragionare” che è cosa diversa dal sapere teoretico o teologico. Il suo sapere implica gli altri “sapere” che costituiscono il rapporto umano non dal di fuori ma dal di dentro.

Per far ciò, Socrate si dichiara più “dubbioso” degli altri e il suo sapere si rivela attraverso il ragionare insieme, per cui è utilissimo l’esame mediante cui spogliare gli altri delle loro verità. Dall’altro lato Socrate non è stato il maestro di nessuno, ma solo compagno étairos, come lo definisce Platone, ma ha aiutato tutti con la sua maieutica, partorendo sé stessi, conducendoli attraverso il dubbio. Ma torniamo ad Aristotele.

La differenza tra la saggezza e la sapienza è ampiamente e dettagliatamente descritta nel Cap. VI dell’opera Etica Nicomachea in cui la sapienza è tratteggiata come “una scienza delle realtà che sono più degne di pregio, coronata dall’intelligenza dei supremi principi”, mentre la saggezza è descritta come “una disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che dirige l’agire e concerne le cose che per l’uomo sono buone e cattive”.

La Sapienza è quindi «la più perfetta delle scienze», che comprende sia il sapere dimostrativo della scienza propriamente detta, sia l’intellezione dei principi; il suo oggetto sono le realtà metafisiche (gli astri e il primo motore), cioè le realtà immutabili, mentre la saggezza, avendo come oggetto l’uomo che, come è noto, è una realtà imperfetta e mutevole, non è una scienza suprema.

Molto significativa è la differenza che lo stesso Aristotele fa tra la scienza suprema e la sapienza. Nell’opera Metafisica, al Cap. I, infatti, ci fa comprendere che la sapienza non riguarda ciò che è utile, in quanto la sapienza ha attinenza più con le “prime cause e i principi”, facendola coincidere con quella che il mondo ellenistico definiva la “filosofia prima”, che riporta l’uomo e la sua felicità all’attenzione del filosofo. In tale contesto, quindi, la sapienza sarà il sapere che attiene il bene e che spinge ad agire per il bene, conseguendo così la felicità.

Tale concetto è ripreso da Cicerone, il quale nel De Offiicis opera una netta distinzione tra la sapienza e la saggezza, definendo la prima “signora di tutte le virtù, e che i Greci chiamano sofia; mentre la saggezza, che io definirei la conoscenza di ciò che si deve cercare o fuggire; quella sapienza, dunque, che ho chiamato signora, altro non è che la scienza delle cose divine e umane e comprende in sé gli scambievoli rapporti tra gli dei e gli uomini e le relazioni degli uomini tra di loro”.

Nelle filosofie fortemente connotate in senso religioso dell’età alessandrina e oltre, invece, si sottolinea il carattere ‘divino’ della Sapienza e si afferma quindi la tendenza a ‘ipostatizzarla’, facendone una sorta di medio tra l’essere supremo e il mondo sensibile, come accade, per es., in Filone di Alessandria, che la identifica con il Logos divino (Legum Allegoriae, I, 65), oppure, secondo Plotino essa rivela anche un’intrinseca potenza creatrice, grazie alla quale è all’origine di tutte le cose e coincide con la natura dell’essere (Enneadi, V, 8, 4-5).

Nello gnosticismo, la sapienza è una potenza mondana ipostatizzata inferiore a Dio, tant’è che secondo Valentino, la sapienza – presumendo audacemente di conoscere da vicino il Padre o tentando di spezzare la legge che regola il Pleroma divino e generare da sola – determina contemporaneamente la caduta di sé stessa e l’origine del mondo materiale.

Il mondo divino è strutturato in trenta coppie di Eoni (entità), maschili e femminili. Dopo il peccato, l’unità è andata perduta e deve essere ritrovata dallo gnostico, che si deve ricongiungere con il compagno celeste (l’angelo).

Uno degli Eoni (la sophia) scese nel mondo, comportando la caduta dell’elemento divino, che deve essere riparata dall’intervento della divinità stessa, che scendendo sulla terra ritrova questo elemento e ricostruisce la coppia originaria.

Nel mondo ebraico afferente alla Qabbalah, la seconda Sefirah, Hokmah, indica per l’appunto la sapienza. Essa è rappresentata dal punto originario che è scaturito da una luce profonda. È il formarsi nella Volontà divina dell’intenzione di creare ed è chiamata sapienza perché contiene ciò che avverrà in seguito.

Essa rappresenta il punto della lettera Yod, del Tetragrammamentre l’uncino della stessa consonante rappresenta il Nulla. Differente è la Sapienza secondo il canone orientale; infatti, Confucio, coevo di Pitagora, nella sua opera forse più importante gli Analecta (i Dialoghi), esorta a “non pensare falsamente” anziché “non parlare falsamente”, significando con ciò che pone a un livello superiore il pensiero, la sua origine e la sua disposizione.

Secondo il sinologo americano Slingerland, l’unità che fa da filo conduttore “non va intesa nei termini di un principio logico o teoretico, bensì di un principio etico a cui la condotta morale si ispira”. Di primo acchito, si potrebbe parlare di saggezza; ma riflettendo in maniera più approfondita si comprende che non può esistere nessun principio etico che non presupponga una visione teoretica del mondo dell’uomo.

Seguendo il pensiero di Slingerland, Confucio giunge al concetto di sapienza non seguendo le tracce logico-teoretiche ma tramite il percorso etico, riflettendo sulla saggezza dell’agire, il cui risultato finale non si chiama più saggezza, cioè ciò che riguarda il principio dell’agire ma sapienza, riguardante il principio costitutivo dell’essere.

Carissimi Fratelli, alla luce di quanto brevemente tratteggiato e riportando i contenuti al nostro microcosmo, non si può far altro che concordare con i nostri predecessori, quando nella stesura dei rituali preferirono il termine sapienza alla saggezza. La prima, infatti, appartenendo al trascendente, diventa indicativa del luogo sacro in cui svolgiamo i nostri architettonici lavori.

Nel nostro percorso iniziatico, la sapienza è quella luce che illumina la via verso il trascendente. A noi non rimane far altro che seguire il percorso iniziatico per tendere alla ricerca del divino e, forse, quando ciascuno di noi attraverserà l’ultimo velo dell’esistenza terrestre, si spoglierà della saggezza per vestirsi di quella sapienza sempre ricercata propria dell’Onnipotente Iddio.  

Bibliografia:

Treccani, dizionario filosofico;

Proverbi 8, 22-31

I grandi filosofi, ed. Il Sole 24 ore, Voll. 1 e 3, Socrate e Aristotele;

La Sacra Bibbia: il libro della Sapienza;

Roberto Tresoldi, la Qabbalah, ed. De Vecchi, 2010;

Vito Mancuso: I quattro maestri, ed Garzanti, 2020.